sabato 29 dicembre 2007

LORO PICENO




L'unico posto dove potrei andare dopo il 13 marzo 2008 è il paese di papà: Loro Piceno. Qui mia cugina ha una casa che non usa perché vive altrove, potrei chiederle di affittarmela. C'è il problema del lavoro, chissà se sarà possibile ottenere il trasferimento presso la Regione Marche. Per mamma non credo sarà difficile trovare una casa di riposo nelle vicinanze.
Loro Piceno è posto in cima a una dorsale, a 436 metri sul livello del mare, tra il Fiastrella e l'Ete Morto, ambedue affluenti del fiume Chienti. Gode di un panorama veramente meraviglioso che si estende dal Monte Conero alla Maiella, dai Sibillini all'Adriatico. Mite il suo clima, fertilissimo il suo territorio ricco di acque sorgive, che nell'antichità erano conosciute per le qualità minerali curative, produce vini squisiti ed un olio di ottima qualità. Le sue origini sono antichissime, come testimoniano alcuni reperti di terracotta risalenti alla civiltà picena, mentre dell'epoca romana rimangono i ruderi delle antiche Terme, scomparse intorno al 1600 in seguito ad una frana provocata da piogge torrenziali che si abbatterono sul paese. Nell'alto medioevo il comune Loro Piceno appartenne
all'Abbazia di San Clemente in Casauria e nel secolo XII passò prima sotto il feudo dei signori Brunforte, poi dei Gualtieri. Dell'epoca restano tratti della cinta muraria ed il Castello dei Brunforte. Dopo aver fatto parte della Marca fermana, Loro Piceno segui le sorti dello Stato Pontificio fino all'annessione al Regno d'Italia (da www.marchecitta.it/.../loropiceno.jpg).
Però che pizza sto paese se more de pizzichi.

lunedì 24 dicembre 2007

AUGURI


Ho ricevuto, tramite sms, decine di auguri da un sacco di persone meno che da Silvia e Michela.

Io glieli ho mandati, a Natale manca ancora un giorno, aspetterò. Sono sicuro che si ricorderanno di me.

giovedì 20 dicembre 2007

APRITI CIELO

Ecco, ora l'hanno letto tutti, "apriti cielo" che casino!
Va bene, ho sbagliato, lo ammetto, ho usato parole pesanti e per questo chiedo pubblicamente scusa alla D.ssa Maria (vedi post Maria Vs Maurizo del 14/12/2007), in fondo non ha fatto altro che applicare le norme (con i paraocchi e con immensa goduria).
Comunque quello penso. Non poteva mica supporre che nella mia immaginazione fosse rappresentata come una santa sull'altare. Vi risulta che qualche condannato a morte abbia mai benedetto il giudice per la pena comminatagli?

mercoledì 19 dicembre 2007

CAUSA CASA


Sono seriamente preoccupato per la causa del 13 marzo 2008. Se dovessi perderla perderei tutto, casa, serenità, futuro. La settimana scorsa hanno occupato abusivamente la casa di mamma ad Anzio e buttato via tutte le sue cose. Se il giudice deciderà di mandarmi via non saprei proprio dove andare, cosa fare. Gira e rigira il pensiero va sempre li: casa. Povero Filippetto, io potrei anche arrangiarmi in qualche modo ma lui, abituato com'è morirebbe. Poco fa, mentre stiravo i panni di mamma ho pensato a come potrei occuparmi di lei senza una casa. Porca miseria che brutta cosa.

martedì 18 dicembre 2007

lunedì 17 dicembre 2007

NETTUNO















Mamma è ricoverata qui da 17 mesi

domenica 16 dicembre 2007

NATALE



Adesso anche i cinesi, per soli scopi commerciali, festeggiano il Natale. E' come se noi cattolici festeggiassimo la nascita di Budda per vendere qualche statuetta.

Non lo sopporto più Natale. Mi fa ricordare di essere solo. E meno che mai sopporto essere invitato a festeggiarlo a casa di qualcuno, amici o parenti, tanto per farmi capire che in fondo non sono solo.

Non sarebbe meglio andare, a mezzanotte, a messa e finirla li?

Spendiamo miliardi per fare regali che puntualmente vengono riciclati se non dimenticati in qualche cassetto. Spediamo auguri che nessuno si aspetta, addobbiamo abeti che farebbero più bella figura nei loro boschi sulle montagne, per che cosa? Per ricordarci che è nato Gesù? Ma perfavore! Gesù non possedeva un supermercato e non aveva nulla da vendere. Io non ho nulla da comprare. Questo è il mio dramma natalizio. A chi fare un regalo!? E soprattutto perché!? Il dramma non è tanto a chi fare un dono perché desidero farlo, il problema è che siamo talmente rincoglioniti dalla pubblicità e dall'usanza che per forza bisogna correre a comprare qualche cianfrusaglia da regalare. Ma purtroppo, nonostante il rincoglionimento pubblicitario, anche volendo acquistare qualche cazzata poi non saprei a chi donarla. Ecco, tutto qui, il Natale mi ricorda che non ho nessuno a cui fare un regalo. E nonostante tutto quello che ho detto, vorrei tanto regalare qualcosa, magari a mia sorella, a mamma o a papà o a Silvia e Michela mie nipoti.

DONNA CON VELO


Anzio 1981
Olio su tela 25 x 30

LUCA 2


Questo è Luca vestito da persona seria, non si capisce se sta ad un matrimonio o ad un funerale, però sta bene messo così.

sabato 15 dicembre 2007

NIZZA











ASHKELON LIBRO 1° CAP. 1°




LIBRO 1°
LA PORTA DELLA GIOVINEZZA

CAPITOLO 1°
TIRO 1250 A.C.

La casa di Maurizio, per Flavio, era un rifugio. Quando le cose gli andavano storte, e gli andavano sempre storte, prendeva la macchina e si nascondeva lì, l’unico posto dove poteva fare quel che voleva senza che nessuno gli dicesse nulla e, soprattutto, dove nessuno sarebbe andato a cercarlo. Quel venerdì sera era una di quelle giornate no.
Uscito dal lavoro se ne andò dagli amici, al bar. Entrò con la sua aria da capo, salutato calorosamente da tutti. Dopo circa due ore di birra, verso le 20,00, uscì barcollando, senza che nessuno lo degnasse di uno sguardo. Il nero del suo abito, contrariamente al solito, non ne esaltava l’aspetto minaccioso ma ne accentuava la momentanea vulnerabilità. Entrò nella sua vecchia Opel e miracolosamente raggiunse la casa di Maurizio. Suonò il citofono con tale violenza che sarebbero bastati altri pochi squilli e la pulsantiera gli sarebbe esplosa sotto le dita. Dopo aver atteso qualche istante si convinse che Maurizio non era in casa. Tornò alla macchina e prese le sue chiavi. In ascensore salutò la sua immagine riflessa nello specchio e non soddisfatto di quello che vide, sferrò un pugno al pulsante del quarto piano. Dolorante strinse la mano fra le ginocchia imprecando violentemente. Entrò in casa. Si sedette sul divano. Era troppo nervoso, decise di rialzarsi e nel farlo urtò un tavolo facendo cadere una lampada di vetro. Dalla base, frantumata in mille pezzi, uscì una miriade di fiori secchi colorati. “Scusa” disse alla lampada. Percorse il lungo corridoio al buio, e, senza provocare altri danni entrò in bagno. Aprì il rubinetto dell’acqua calda della vasca, stette a guardarla mentre, lentamente, si riempiva. Versò il bagno schiuma. Improvvisamente sentì il bisogno di bere. Ripercorse il corridoio a tentoni, fino all’ingresso, e si diresse verso la libreria dove sapeva di trovare da bere. Dopo una breve occhiata alle bottiglie fece la sua scelta: “ sciampagne vu vu & pelletier et fils” lesse, così com’era scritta, l’etichetta sulla bottiglia. Seguì la ricerca del bicchiere. Nonostante i postumi dell’alcool si rese subito conto che quelli esposti nella libreria non erano adatti. Volgendo lo sguardo intorno vide, sul mobile di fronte, luccicare le Porte di Cristallo. I sei bicchieri, colpiti dalla luce, riflettevano intorno giochi di colore. Si avvicinò ad essi esitante e, ignorando il divieto di Maurizio, ne prese uno. Lo sollevò verso la luce fermandosi a rimirarne la perfetta trasparenza. Ne apprezzò brevemente la purezza della forma. Soddisfatto, riprese la bottiglia, spense la luce e tornò in bagno.
Il vapore aveva invaso l’ambiente appannando gli specchi. Posò bottiglia e bicchiere vicino la statua di Venere che Maurizio teneva sul largo bordo della vasca. Immerse la mano nell’acqua per sentirne la temperatura. “Troppo calda” disse agitando la mano nell’aria. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda, il getto formò un profondo buco nella schiuma che intanto cominciava a traboccare. Nell’attesa che l’acqua raggiungesse la giusta temperatura andò a spogliarsi. Si sedette sul letto per togliersi gli stivali gettando alla rinfusa i vestiti intorno. Tornò, nudo, in bagno. Chiuse il rubinetto, prese la bottiglia di champagne e ne strappò dal collo la carta dorata. Poi, come in attesa dello scoccare della mezzanotte, cominciò a stapparla lentamente. Nel sentire il botto sorrise soddisfatto. Facendo scorrere la bottiglia lungo la vasca versò molto champagne nell’acqua gridando “champaaagne”. Il vino versato disegnò ghirigori nella schiuma. In precario equilibrio entrò nella vasca e la schiuma, piano piano, accarezzandogli la pelle, cominciò a salire fino al mento costringendolo a piegare la testa all’indietro per non soffocare. Prese il bicchiere ai piedi della Venere e tenendolo alzato con la mano sinistra inclinò la bottiglia provocando un’onda che urtando violentemente contro il collo si ruppe in un’infinità di pesanti goccioloni. Flavio, con gli occhi sbarrati, vide, come al rallentatore, la prima goccia di champagne cadere nel fondo della coppa. Al contatto con il cristallo decine di piccole gocce fuoriuscirono dal bicchiere esplodendo in tutte le direzioni riflettendosi nelle sue pupille. Come fuochi d’artificio, ormai già lontane dalla coppa, formarono cascate di lapilli colorati. Flavio, esterrefatto e credendo di sognare, vide l’acqua ribollire intorno a se. Lo spettacolo si ripeté ad ogni contatto delle gocce di champagne con il vetro della coppa. Sconcertato raddrizzò la bottiglia e bevve un lungo sorso dal bicchiere. Rilassato, poggiò la testa sui piedi della Venere e chiuse gli occhi. Passarono pochi secondi e li riaprì di colpo lasciando cadere la bottiglia ed il bicchiere che scomparsero rapidamente nella schiuma. Cercò di sedersi ma era come paralizzato. Improvvisamente si trovò a lottare contro furiose onde. Non era più nella vasca. Era invece circondato da un’immensa distesa blu. Le onde, violente, lo sommergevano per poi lasciarlo riaffiorare. Non riusciva a respirare. Cercava di sputare l’acqua che in continuazione gli riempiva la bocca. “Ma è salata!” esclamò meravigliato. Esausto smise di lottare e abbandonò la testa all’indietro. Un istante prima di perdere i sensi, vide, in lontananza, una grande imbarcazione che lottava disperatamente contro la tempesta. Due marinai, sbracciandosi dalla poppa, indicavano ad un terzo, il corpo di Flavio ormai privo di sensi. L’uomo senza esitare si tuffò tra le onde e con veloci bracciate lo raggiunse quando ormai, avvitandosi leggermente, cominciava ad annegare.
L’uomo gli stava comprimendo il torace quando, fra rigurgiti d’acqua salata Flavio riaprì gli occhi.
“Capitano” disse l’uomo, “Un’enorme ondata ha inclinato la nave ed è caduto, stava per annegare”.
“Meir!” esclamò Flavio, “Ti sei già pentito d’avermi salvato? Vuoi uccidermi tu, mi stai schiacciando le costole”. Gli uomini attorno scoppiarono in una fragorosa risata.
La tempesta si era placata. Flavio si alzò e guardandosi intorno come per constatare le condizioni del battello, riconobbe tutti i suoi uomini.
Meir, il nocchiero, si ergeva imponente davanti a lui nonostante la brutta avventura.
Keftet, un ragazzo di appena diciotto anni, al suo primo imbarco, “Mozzo, non era forse tuo compito tenere in ordine la nave?” gli disse indicando il ponte devastato. Keftet arrossì timidamente tra le risate dell’equipaggio e Meir cingendogli le spalle lo strinse a se confortandolo, “E’ un vero marinaio, è grazie a lui che siamo riusciti a salvare il carico”.
“E’ vero Capitano” ribatté Memsi, un ragazzo proveniente dai cantieri navali di Tiro. “Prima che la tempesta s’impadronisse della nave è riuscito a stringere tutte le cime intorno alle casse impedendogli di urtare contro il fasciame della stiva”.
Flavio si avvicinò a Keftet, gli poggiò le mani sulle spalle “Bravo ragazzo, ho sempre avuto fiducia in te, tuo padre ne sarà fiero”. “Senza l’aiuto del Signore delle tempeste ci troveremmo tutti in fondo al mare” disse Keftet. Il capitano lo guardò meravigliato di tanta devozione verso Melqart, principale divinità di Tiro. “Ma ora bisogna darsi da fare, guardate che disastro”, aggiunse Flavio indicando loro il ponte, “ A lavoro fannulloni”.
La nave, proveniente da Sulcis, in Sardegna, trasportava un carico d’argento e rame destinato alle botteghe artigiane di Tiro e Sidone. Aveva già navigato per tutto il Mediterraneo quando, a sud di Cipro, fu colta dalla tempesta.
Il breve tratto di mare che separava Cipro dal porto di Tiro fu attraversato tranquillamente senza altri incidenti.
“Con il vento favorevole saremo in vista del porto in cinque giorni” disse Meir.
Flavio, volto in direzione di Nablus, un tarchiato ragazzotto di Tharros ricca colonia fenicia sulla costa occidentale della Sardegna, gli ordinò di salire sulla coffa, “Così sembrerai più alto” aggiunse facendo l’occhietto a Meir. Appena Nablus si fu arrampicato sull’albero, Keftet aiutò Aren e Hamered, due inseparabili fratelli della cittadella di Zer, ad issare il pennone.
La gran vela rettangolare fu immediatamente gonfiata dal vento, imprimendo alla nave una spinta che in breve le fece raggiungere una velocità di tre nodi.
Mentre gli uomini riordinavano il ponte liberandolo dai vari oggetti sparsi dalla tempesta, Flavio scese nella stiva, passò dinanzi alle casse cariche d’argento e di rame, in fondo, verso poppa, prima della zona riservata ai marinai, notò, amareggiato, che nessuna delle anfore si era salvata. Camminò a piedi nudi tra i cocci prestando attenzione a non tagliarsi e raggiunse il suo giaciglio, povere tavole coperte da grandi teli di canapa che, completamente fradici, erano scivolati per terra. Si chinò sotto il letto e tirò fuori una cassa nella quale erano riposte le poche cose necessarie alle cure personali. Ignorò un rasoio di bronzo ed alcuni frammenti di specchio e prese un abito pulito, l’unico che c’era, in canapa rossa. Si tolse di dosso i pochi brandelli rimasti e si cambiò. Prima di riporre la cassa prese il rasoio di bronzo e lo mise sotto la cinghia che gli stringeva la corta tunica. Tornato sul ponte fu accolto dai fischi di ammirazione dell’equipaggio. “Fareste bene a darvi una ripulita anche voi, sembrate degli straccioni” cantilenò come risposta. Raggiunse Meir nel suo casotto. “Olio e provviste sono andati” disse, sedendosi sulle tavole dove il nocchiero si stendeva a riposare, “Le anfore sono tutte rotte”. Meir alzando le spalle gli rispose che l’argento ed il rame avrebbero assicurato, da soli, un lauto guadagno. “La nave è salva ed è in grado di affrontare ancora decine di viaggi” aggiunse vedendo che Flavio, pensieroso, si reggeva il volto.
Era buio quando gli uomini risistemato il ponte e provati dalla fatica scesero sottocoperta a riposarsi.
Meir ancora pieno di forze, come se si fosse appena svegliato, rimase solo con il grande remo stretto nella mano destra, a governare la nave.
Flavio, dalla prua, se ne stava a guardare le stelle.
Col calare della notte la vela, ormai sgonfia, non spingeva più la nave che, lentamente, seguiva il flusso della corrente.
L’alba colse Flavio disteso tra le cime dell’ancora. Meir cominciava ad avvertire la stanchezza. Arrivò Rabben, un ragazzone di ventitré anni, di genitori egiziani ma residente a Tiro, a dargli il cambio. Meir raggiunse Flavio, allungò il braccio per svegliarlo ma il capitano, senza voltarsi disse: “Sono sveglio Meir”.
Il nocchiero rimase un istante a guardarlo pensando che Flavio fosse preoccupato per la perdita delle anfore, cercò di tirargli su il morale ricordandogli che con la vendita delle sole casse d’argento avrebbero guadagnato almeno seimila monete di Tiro, sufficienti a pagare l’equipaggio e a riarmare la nave per il viaggio successivo. Flavio non replicò.
Meir in realtà conosceva il motivo del silenzio del suo capitano, Aseret, una splendida fanciulla appartenente alla classe alta di Sulcis.
Gabir, il padre di Aseret, un anziano colono arricchitosi commerciando con Cartagine, aveva proibito alla figlia di vedere Flavio. La ragazza era già stata promessa ad un nobile di Cartagine.
Il nocchiero stava per andarsene, poi girandosi nuovamente verso Flavio, cominciò a descrivere le bellezze femminili di Tiro. “Vattene via” gli urlò Flavio tirandogli dietro un coccio trovato tra le corde.
“Aseret, Aseret, solo Aseret, non esiste altra donna al mondo” bofonchiò Meir lasciandolo solo con i suoi pensieri.
Durante gli ultimi giorni di navigazione gli uomini furono impegnati nelle loro usuali attività. La vita a bordo trascorse serenamente fra pulizie, svaghi, pesca e, nei giorni più caldi, con qualche tuffo in mare.
Fu di pomeriggio, mentre la maggior parte degli uomini stava riposando sotto coperta che Nablus urlò, con tutto il fiato che aveva in gola, “Terra in vistaaaa”.
Meir, mezzo addormentato sulla panchetta, si alzò e immergendo in mare il remo fece virare bruscamente la nave. “Pezzo d’idiota” gridò Nablus dalla stretta coffa avvicinando la mano destra alla bocca. Tre marinai rotolarono giù dal letto a causa dell’improvviso strattone. Flavio si svegliò battendo la testa contro lo scafo. “Ora vado su e lo do in pasto ai pesci, nocchiero della malora” gridò toccandosi la testa dolorante. Salirono tutti di corsa sul ponte.
“Terra in vista Capitano” urlò Nablus. “C’è Tiro da quella parte” continuò a strillare, indicando a sinistra della nave.
“Vuoi portarci in Egitto?” chiese Flavio a Meir, “Ti spezzo quel dannato remo in testa, non vedi il porto laggiù?”
“Eeh quante storie, mi ero appisolato un attimo” rispose Meir cambiando rotta e dirigendo la nave verso la costa.
Gli isolotti sui quali sorgeva Tiro erano ormai vicini. Tutti avevano fretta di toccare terra. Aren e Hamered manovrarono le funi per tirare giù la vela proprio nel momento in cui Nablus scendeva dalla coffa. A metà dell’albero centrò in pieno il pennone che rovinò pericolosamente sulle teste dei due fratelli. Keftet scese di corsa nella stiva per cambiarsi e nel buio inciampò sul corpo di Rabben che s’era chinato per prendere, sotto il letto, un vestito pulito. In brevissimo tempo crearono più confusione loro di quanta ne avesse causata la tempesta. Quando la nave imboccò il porto, erano tutti allineati sul ponte, puliti e splendenti nelle loro vesti. Giunti all’attracco gettarono l’ancora. Meir tirò una cima a terra e un ragazzo la legò ad una bitta. Erano pronti a sbarcare. Memsi stese la passerella e tutti scesero finalmente. Per ultimi sbarcarono Flavio e Meir.
Il mozzo Keftet, Memsi, il nano Nablus, i fratelli Aren e Hamered e Rabben restarono sulla banchina tra la folla ad attenderli.
Raggiunto l’equipaggio Flavio, impartì agli uomini gli ultimi ordini del giorno. “Fra un’ora sarà notte quindi, ragazzi, siete liberi. Qualcuno però dovrà restare di guardia sulla nave” continuò trasformando l’allegria dei marinai in mugugni di delusione. “Tu sei nuovo qui in città, non conosci nessuno, non sapresti dove andare a dormire e sicuramente ti cacceresti nei guai, quindi la cosa migliore per te è restare di guardia” disse rivolto al piccolo Nablus. Incuranti della delusione del loro amico, gli altri ragazzi ripresero a festeggiare il ritorno a casa. “Però” continuò, “Qualcuno dovrà controllare, ogni due ore, che tutto sia tranquillo. Quindi, tu Rabben tornerai a bordo alla seconda ora da adesso e così fino all’alba, ogni due ore, farete voi. Questi sono i miei comandi. Non vorrete che per una notte di bagordi qualcuno ci porti via cinque mesi di duro lavoro! Forza, a casa adesso, ci rivedremo domani alla sesta ora”. Ognuno si dileguò fra la folla. I due fratelli, inseparabili, si diressero verso nord. Flavio e Meir guardarono Nablus risalire sulla nave. “Tira su la passerella” lo esortò Meir, “Sarà più difficile per i malintenzionati salire a bordo”. Nablus senza voltarsi alzò il braccio destro in segno di saluto.
“Hai deciso bene” disse Meir rivolto a Flavio, “Tiro non è sicura per lui”. I due si salutarono, “A domani nocchiero, riposa bene”.
Le strade di Tiro si andavano svuotando. I pochi mercanti rimasti riponevano sui carri le merci invendute. Alcuni contadini s’apprestavano ad uscire dalla città con il loro carico di polli, ceste d’uova ed ortaggi vari.
Flavio, oltrepassata la zona portuale, s’incamminò lungo una stretta via che conduceva alla parte settentrionale della città e da lì a Paletiro, il quartiere di Tiro costruito sulla terraferma. La strada, maleodorante, era immersa nel buio, fiancheggiata com’era da alti edifici di legno accostati l’uno all’altro. Passò davanti ad una taverna dalla quale provenivano schiamazzi. Fece per entrare ma, scorgendo in un angolo i due fratelli di Zer che confabulavano con un vecchio dai vestiti eleganti, decise di andarsene. Prima di uscire si voltò ancora verso il tavolo di Aren e Hamered e li vide prendere, dalle mani del vecchio, una borza di pelle rigonfia. Il più giovane, Aren, lo vide, diede una gomitata al fratello indicandogli l’uscita del locale. Hamered si voltò appena in tempo per riconoscere Flavio che usciva dalla bettola.
“Era lui” dissero entrambi al vecchio.
Flavio non lo riconobbe. Ma di sicuro pensò, non viveva a Tiro. S’icamminò verso Paletiro. Arrivò alla piazza del tempio di Melqart, Baal di Tiro e Signore delle tempeste. Era buia e sporca. Su di essa troneggiavano i grossi blocchi di pietra del muro di cinta che separava l’area sacra del santuario, fatto erigere da Hiram re di Tiro, da quella profana. Oltre le mura si ergevano, preziose, due grandi colonne d’oro e smeraldo. Flavio giunse sotto le mura ed imboccò una viuzza che conduceva alla parte nord della città, da dove, attraversando il canale, le zattere traghettavano a Paletiro.
“Chi va la?” gridò portando la mano sulla cinghia dove aveva riposto il rasoio di bronzo. Non fece in tempo a dire altro. Un uomo avvolto in un mantello, sbucò da un portone e lo colpì in testa. Quando riprese i sensi si trovò i polsi e le caviglie legate da robuste corde che lo tenevano saldamente ancorato ad una gelida lastra di pietra. Ai suoi piedi, l’uomo che lo aveva colpito. Alla sua sinistra Aren e Hamered osservavano l’uomo colmantello.
“Bastardi, che Melqart vi fulmini” imprecò Flavio riconoscendoli nella fioca luce delle torce appese alle pareti.
“Melqart non ti sarà di nessun aiuto” esordì l’uomo togliendosi il mantello.
“Hamed ! , è quell’avaro ipocrita di sulcitano che ti manda, cosa vuoi da me” chiese Flavio al vecchio avendo riconosciuto in lui il perfido servo egiziano di Gabir, padre di Aseret.
Hamed senza rispondere si avvicinò alla pietra. Aprì una piccola cassa ai piedi del capitano e vi infilò le mani e rialzandole, lentamente, ne estrasse una coppa di cristallo.
“Cosa vuoi, offrirmi da bere?” disse ironico Flavio.
Hamed sollevò la coppa che colpita dai raggi luminosi del fuoco delle torce, riflesse, per tutta la stanza, una luce rossastra.
“Ridi, ridi pure Capitano, saranno le tue ultime risa sotto il regno di Hiram. A Tiro gli Dei hanno svelato all’uomo il segreto del vetro. La Terra gli ha fornito il silicio, il Fuoco lo ha reso liquido e l’Aria, gonfiandolo, gli ha dato la forma. A Sulcis il maestro dei sacrifici ha immolato una fanciulla a Moloch e il gran sacerdote ha resuscitatoil dio in cambio dei suoi poteri. Questa” continuò Hamed “è la Porta della Giovinezza. Una giovinezza antica, quella degli albori del mondo. Quando avrai bevuto da questa coppa gli spiriti buoni della Terra, dei Boschi e dei Fiumi che convivono nel vetro, resi malvagi dai poteri di Moloch, ti condurranno in un mondo primitivo, lontano dalla civile Fenicia. Si compirà così il destino di Aseret, che già viaggia verso Cartagine dove andrà sposa al nobile Trebor ed il tuo, che dimentico di quanto hai vissuto, ti troverai a combattere, per sopravvivere, contro una natura selvaggia ed ostile. Ma soprattutto si compirà il mio destino. Grazie al compenso che Gabir mi darà, sarò finalmente libero dalla schiavitù. Solo bevendo una seconda volta da questa coppa potrai tornare indietro, ma non avrai questa possibilità”.
“Maledetto tu e il tuo padrone” ribatté Flavio contorcendosi sull’altare.
Allungando la mano con la coppa in direzione di Aren “Versa il vino” disse Hamed, “Dissetiamo il vostro comandante con il nettare dell’oblio e che gli spiriti malvagi se lo portino via per sempre”.
Avvicinò poi il boccale alle labbra di Flavio ordinando “Guadagnatevi i vostri denari,tenetelo fermo”.
“Sporchi traditori, non avvicinatevi” disse Flavio agitando la testa. Aren e Hamered gli strinsero un pezzo di legno tra i denti per costringerlo a tenere la bocca aperta. Il vino friggeva nella coppa emanando tutto intorno magiche esplosioni colorate. I due, meravigliati, si fecero da parte mentre il servo di Gabir inclinava il bicchiere per versargli il liquido in bocca.
Quando la prima goccia di vino stava per uscire qualcuno spinse il pesante portone alle spalle di Hamed, piombò violentemente contro lo schiavo egiziano che, vacillando, lasciò cadere la coppa. Questa senza rompersi cadde sul mantello. Colpito alle spalle Hamed finì contro il corpo di Flavio che non potendo fare altro, gli sferrò una potente testata sul naso. Hamed sollevò il capo sanguinante e poggiando le mani sul corpo del capitano, sentì, con la destra, il rasoio che questi teneva tra la cintola. Prontamente glielo tolse e giratosi contro l’intruso tirò un fendente all’altezza della vita. Questi gli bloccò il polso prima che la lama lo colpisse e, torcendolo, costrinse Hamed a lasciar cadere il rasoio. L’egiziano, cadde ai piedi del nuovo arrivato che lo colpì violentemente con una ginocchiata. Dalla sua posizione Flavio non riuscì a vedere il volto del suo salvatore. Aren ed Hamered, dall’altra parte della stanza, però, lo avevano riconosciuto. “Meir” dissero meravigliati all’unisono, “Che Moloch ti maledica”, tirandogli contro una delle torce appese alle pareti. Meir tenendo bloccato Hamed, con la sinistra afferrò la torcia al volo. “Meir amico mio, arrivi al momento giusto” disse Flavio mentre cercava di spezzare le funi tirandole con le braccia. “Avevo visto questi due bastardi parlare con l’egiziano e, incuriosito, li ho seguiti” rispose Meir. Avvicinando pericolosamente la torcia accesa al volto di Hamed si rivolse ai due fratelli. “Scioglietelo o ridurrò il vostro amico in cenere”. I due esitarono. “Fate come vi dice, idioti!”, urlò Hamed. Il capitano libero ed in piedi, improvvisamente, senza che i due se l’aspettassero, li prese per le orecchie e gli fece sbattere la testa l’uno contro l’altro. Hamed approfittando della confusione era riuscito a raccogliere il rasoio e lo conficcò violentemente nella coscia sinistra di Meir. La torcia cadde sul mantello di Hamed incendiandolo. Con un urlo disumano si strappò la lama dalle carni. Un fiotto di sangue spruzzò in faccia a Hamed che, velocemente, fuggì attraverso la porta divelta. Flavio fece il giro dell’altare ed andò verso Meir. “Amico mio, che il Signore delle Tempeste ti protegga” gli disse abbracciandolo. Poi notando la smorfia di dolore sul suo volto abbassò gli occhi verso la coscia ferita. Prese una delle corde e gliela strinse intorno alla coscia.
“Dobbiamo inseguirlo” disse Meir a Flavio, “Libero potrebbe ancora nuocere, riesci a camminare?”. “Si, fa male ma è sopportabile, andiamo” rispose Meir. Imboccarono la via presa da Hamed.
“Dove siamo?” chiese Flavio. “Nel sotterraneo del Tempio di Melqart. Questo corridoio conduce al gran bacino artificiale”.
“La coppa !” esclamò Flavio, “Aspettami qui” e tornò indietro.
“La coppa? Che coppa?” gli chiese Meir.
Nel sotterraneo il mantello di Hamed stava ancora bruciando. Flavio soffocò con i piedi gli ultimi fuochi, prese ciò che rimaneva del mantello e vi avvolse la coppa, staccò una torcia dal muro e raggiunse Meir.
“Cos’hai lì?” chiese Meir. “Un bicchiere” gli rispose il capitano.
Meir tacque.
Il corridoio saliva costeggiando le mura della sala. Arrivarono fino all’angolo nord-ovest e si fermarono. Flavio fece cenno a Meir di accostarsi alla parete. Sporse la testa oltre l’angolo poi si girò verso l’amico “Via libera”.
Percorsero ancora qualche metro. Alla luce della torcia scorsero, poco più avanti, una scala incastrata nei grossi blocchi di pietra delle fondazmenta. Con cautela cominciarono a salire. Dopo circa quindici gradini arrivarono ad un piccolo pianerottolo dal quale si diramavano tre corridoi e più stretti di quello lasciato alle spalle. Meir era stanco. Dalla ferita alla coscia sgorgava ancora sangue. Flavio illuminò il corridoio di sinistra. Alla luce della debole fiamma apparve uno stretto e umido cunicolo le cui pareti erano scavate da nicchie con piccole steli di pietra. Passò al corridoio successivo che scendeva al di sotto del livello in cui si trovavano. A malapena lo si poteva attraversare. Dalle pareti colavano acqua e fango. Un olezzo dolciastro lo prese alla gola. Avanzò lentamente. Il corridoio si aprì in una grande sala quadrata. S’accorse, poco prima di finirci dentro, che l’intera stanza era una profonda fossa. Sporse la torcia e illuminando uno spettacolo orrendo. In fondo alla buca, grossi roditori s’accanivano contro un ammasso di cadaveri. S’inginocchiò sul bordo ed abbassò la fiaccola. I topi stavano divorando i resti ormai putrefatti di decine di bambini. Fu colto da un conato che non riuscì a trattenere. Si gettò all’indietro. Restò per qualche attimo in quella posizione finché, preso dall’orrore, ripercorse, correndo, il corridoio per raggiungere Meir. S’appoggiò al muro accanto a lui. Ansimando guardò in faccia l’amico e gli disse “E’ questo il tributo che paghiamo al Signore della città?”. “Baal chiede il sacrificio estremo per i suoi servigi” gli rispose Meir, “I figli più giovani di Tiro nati deformi o malati, finiscono, dopo l’immolazione, in pasto ai topi affinché le loro madri partoriscano figli sani. Quelli che hai appena visto sono i figli dei più poveri. Dietro le steli del primo corridoio riposano, dentro le urne, i resti inceneriti dei fanciulli della classe più ricca. Questo è ciò che chiede Baal”. “Questo è ciò che chiedono i suoi crudeli sacerdoti” replicò Flavio con disprezzo.
Restarono qualche minuto appoggiati al muro, senza parlare. Poi Flavio illuminò il terzo corridoio. Da li iniziava un’altra rampa di scala.
“Sembra che tu conosca molto bene questo posto, dove porta quella scala?” domandò Flavio a Meir. “Al Tempio, nel portico intorno al laghetto, al centro del Santuario”.
“Andiamo, dobbiamo uscire” continuò Flavio sostenendo con un braccio il nocchiero.
Faticarono un bel po’ prima di arrivare alla curva che la scala faceva intorno alle mura. Meir, appoggiato a Flavio, era visibilmente provato. La ferita alla coscia continuava a sanguinare. Giunti alla curva riposarono e Flavio strinse di più la corda sulla ferita. “Lasciami qui, non riuscirai mai ad uscire dal Tempio se dovrai sopportare anche il mio peso” gli disse Meir. “Tu sei venuto quaggiù e mi hai liberato, io non ti lascerò crepare qui sotto” rispose Flavio mentre lo aiutava a rialzarsi. “E poi ho ancora bisogno di te, chi governerà la nave fino a Cartagine?. Rabben è un bravo nocchiero, ma non conosce ancora bene le rotte verso occidente, sarà difficile per lui portarmi a Cartagine”. “Cartagine? cosa c’entra adesso Cartagine?” chiese Meir. “Poi ti spiegherò, usciamo da questo posto maledetto e poi ti spiegherò tutto” gli rispose il capitano mentre, barcollando, si trascinava Meir in cima alla scala."Troppe cose dovrai spiegarmi. Cosa ci facevi legato su quell’altare? E perché Aren e Hamered, insieme al quel vecchio intrigante di Hamed ce l’avevano con te? Cosa ci fai con quel bicchiere di vetro che hai li dentro?” domandò Meir. “Pazienza amico mio, domani saprai tutto”.
Arrivarono finalmente alla fine della scala. Si trovarono nell’area sacra del tempio. Una vasta vasca rettangolare, scavata nella roccia, al centro della quale, sopra un isolotto, sorgeva una piccola cappella sormontata da un fascione merlato. Un portico cingeva, per tre lati, la vasca. Dal quarto sgorgava, direttamente dalla roccia, una sorgente che alimentava d’acqua il grande bacino artificiale. Il luogo era immerso in un profondo silenzio rotto soltanto dallo sgorgare dell’acqua. Dall’alto della vasca, priva di tetto, la luna, rispecchiandosi nell’acqua, illuminava debolmente l’area sacra.
“Ecco da dove proviene l’acqua che cola sulle pareti nella stanza di sotto. Bel santuario ha costruito Hiram per i suoi orrendi riti” disse Flavio indicando il laghetto. “Dove sta l’uscita?”.
“Da quella parte” rispose Meir allungando un braccio verso il fondo del portico.
Camminarono lentamente sotto uno stupendo soffitto a cassettoni. Massicci pilastri di pietra, allineati lungo il bordo della vasca, sorreggevano i pesanti marmi scolpiti del soffitto che, nell’altro lato, poggiavano sulla roccia nella quale era stata scavata quella parte del tempio in cui si trovavano. Arrivarono all’altezza del secondo pilastro ed udirono, provenire da un’apertura nella roccia, alla loro sinistra, una strana litania. Flavio, incuriosito, volle andare a vedere. Lasciò il suo amico ad attenderlo sotto il portico e s’avviò verso gli strani lamenti. Percorso un breve corridoio, anch’esso scavato nella roccia, si trovò dietro una grande stele, in un’altra sala del santuario. Prestando attenzione a non farsi scorgere, fece capolino da oltre la stele. Quello che vide confermò i suoi pensieri sui riti e sui sacerdoti che li praticavano.
Un uomo mingherlino, vestito di un gonnellino egiziano, riccamente decorato, col torso nudo e con preziosi monili d’oro che gli scendevano dal collo lungo il petto, recava, sulle braccia, un neonato. L’uomo, sacerdote di Melqart, giunto nei pressi di un altare, porse il bambino ad un altro: il Gran Sacerdote. Questi indossava una lunga tunica di canapa rossa che gli ricopriva tutto il corpo fino alle caviglie. Sul capo una tiara conica intessuta con fili d’oro e d’argento. Come l’altro indossava monili d’oro e pietre preziose. Alla sua destra un altro sacerdote.
Prese il bambino e lo depose sul piano di legno dell’altare al centro della stanza. Oltre l’altare, un ragazzo ed una giovane donna, i genitori del bambino. Dietro di loro alcune donne che, con le mani sul volto, intonavano incomprensibili litanie.
La mamma del bambino si fece avanti. Dalla veste che indossava, una vecchia tunica che originariamente doveva essere rossa, ormai sbiadita e logora in più parti, priva d’alcun monile, e a piedi scalzi, Flavio intuì appartenere alla classe più povera di Tiro. Recava in mano una statuetta votiva in bronzo. Si avvicinò al Gran Sacerdote che, preso il bronzetto, lo consegnò all’aiutante che era rimasto al suo fianco. Tornata al suo posto la donna poggiò la mano destra sul braccio del suo uomo, un ragazzo poco più che ventenne. L’uomo la guardò. Annuì con il mento e si fece avanti. A torso nudo mostrava tutta la fierezza del suo giovane corpo. Indossava un semplice gonnellino che gli ricopriva le gambe sino alle ginocchia. In mano teneva una borsa di pelle. Raggiunto il Gran Sacerdote gliela consegnò. Questi la soppesò con entrambe le mani, poi, soddisfatto, la consegnò al sacerdote alla sua destra. Quando il ragazzo raggiunse la sua donna il Gran Sacerdote si avvicinò all’altare, prese un rasoio di bronzo e sollevatolo in aria con tutte e due le mani predicò: ”Melqart, Baal di Tiro e delle tempeste, noi ti invochiamo affinché tu interceda presso Astarte, dea della fecondità, madre e regina. Questi giovani tirii ti fanno dono del corpo malato del loro figlio primogenito. Fa sì che la sua anima rinasca in un corpo sano e robusto”. Finita la breve supplica, senza ulteriori cerimonie, abbassò il rasoio. Lo avvicinò al bambino che si agitava sull’altare e con un colpo secco e deciso gli recise il collo. Dal profondo taglio il sangue schizzò sulla veste del Gran Sacerdote che, senza scomporsi, azionò, col piede destro, una leva alla base dell’altare. Il piano di legno si abbassò ed il corpo senza vita del neonato precipitò nella stanza sottostante dove, poco prima, Flavio aveva visto i topi cibarsi dei miseri resti di bambini.
“Andiamo via da questo luogo orrendo” disse Flavio appena raggiunto il suo amico. Prese la torcia ancora accesa, lasciata ai piedi di Meir, “Questa non serve più” disse lanciandola nell’acqua. Poi raccolse la coppa avvolta nel mantello di Hamed , aiutò Meir a rialzarsi e s’incamminarono verso il fondo del porticato. Percorsero tutto il suo lato sinistro fino ad arrivare alla parete opposta alla sorgente, dove, davanti ad un gran portone di bronzo, ardevano due bracieri. Una lunga asse di legno teneva ben chiuse le due ante del portone bronzeo. Flavio sollevò l’asse ed il portone s’aprì. Davanti a loro, ai piedi di una breve scalinata, troneggiavano le due prezione colonne d’oro e smeraldo. “Guarda” disse Flavio a Meir, “Macchie di sangue” gli fece indicando i gradini. “Quel vecchio bastardo è passato di qui, gli sanguinava il naso quando è fuggito”.
“Sarà uscito dal piccolo passaggio tra le mura laterali” rispose Meir, “Qui sulla sinistra”.
Scesero la gradinata, passarono tra le due colonne e, raggiunta una porticina nel lato sinistro del muro di cinta, si trovarono nella stradina dove Flavio era stato aggredito.
“Finalmente fuori” esclamò sorridendo Flavio. “Alle zattere adesso, ti porto a casa mia”.
Giunti a Paletiro, Flavio condusse Meir a casa sua dove, dopo averlo fatto stendere su di un letto, gli spalmò una pomata bianca sulla coscia. “Questo unguento è ricavato da erbe prodigiose” gli disse mentre medicava la ferita. “Domani non sentirai più nessun dolore”.




venerdì 14 dicembre 2007

LUCA


Te voglio tanto, tanto bene, ma porca miseria, levate st'occhiali

FILIPPETTOOOOOOOOOOOOOOOOOO




Settembre 2006



La mia macchina

Maria Vs Maurizio

Il 13 marzo 2008 ci sarà la causa che la D.ssa Maria ha intentato contro di me.
Dopo quasi 25 anni che abito a ........... ha avuto il coraggio di denunciarmi per occupazione abusiva.
Io me metto a occupà gli appartamenti!?
Che la posseno sventralla a lei e chi ce l'ha messa.
Eeeeh ma non finisce qui, no no no.
M'ha pure chiesto 25.000,00 € in contanti entro 10 gg per indennità d'occupazione e fitti arretrati.
La posseno sventralla n'artra volta.
Ma andò li vado a pija 25.000,00 €? Mettimeli a rate no!?
Stronza!
E' talmente cattiva che non je ne frega niente de mette na famiglia in mezzo alla strada.
Quale famiglia? Io e Filippetto no!
M'ha mannato pure la polizia a casa pe sapé chi so.
Porella, non lo sapeva chi so.
Lei deve solo pregà Iddio che non perdo la causa perché se la perdo, la dentro faccio un macello che non finisce più. In galera li manno, dal primo all'ultimo.

IL MIO UFFICIO


ANZIO Santa Teresa


ASHKELON introduzione


MAURIZIO, FLAVIO E LE PORTE DI CRISTALLO

ROMA, 1982

L’orologio sul cruscotto della macchina segnava le 15,00 e pioveva a “rotta de collo”, come si dice a Roma, quando Maurizio arrivò a Circonvallazione Appia, 91. Le nuvole erano talmente basse, grigie, ma di un grigio così intenso ed omogeneo, senza sfumature, che Maurizio si sentì schiacciare dentro la macchina. Il cielo era completamente oscurato da queste nubi che non si vedeva la minima traccia di azzurro. Pioveva intensamente. Di solito è piacevole stare in automobile mentre piove. La pioggia che batte sui vetri ed il rumore dei tergicristalli danno un’insolita sensazione d’intimità. Ma quella che provò Maurizio, quel giorno, non fu assolutamente una sensazione piacevole. Si voltò verso il cancello del palazzo ed esclamò: “Il più brutto della strada! Chissà, forse con il sole…, Qua mica smette de piove. Me sa tanto che me conviene parcheggià ed andare dal Sig. Botaro a pagare il condominio. Lo troverò un parcheggio?”. Fece circa duecento metri di strada fino al semaforo, senza vedere nulla a causa della fitta pioggia, e senza trovare un posto. Girò a destra, fece il giro dell’intero isolato e si ritrovò al punto di partenza. Parcheggiò l’auto tra il cancello del civico 91 e quello del 93, in modo tale da consentire l’eventuale transito di altre auto. Si allungò sul sedile posteriore per cercare di prendere, attraverso il foro posto sullo schienale del sedile, l’ombrello nel bagagliaglio. Aprì lo sportello per scendere e fu subito investito da una raffica di vento che gli appannò gli occhiali. Chiuse immediatamente lo sportello. “Mannaggia, dove sta la pezza per pulire gli occhiali?”. Aprì il cassetto dal lato passeggero e ne tirò fuori una pezza rossa con la quale asciugò gli occhiali. Provò nuovamente ad uscire dalla macchina. Attraversò di corsa, senza neanche aprire l’ombrello, il breve vialetto che dal cancello conduceva al portone del palazzo. Nonostante la breve corsa arrivò sotto il portico completamente zuppo. Il portico! Non era altro che un balcone sorretto da due pilastrini in tubi di cemento, sotto il quale stava il portone a due ante, in alluminio e vetri. Sul lato destro del portone c’erano i citofoni. “Botaro, Botaro, Botaro, Botaro eccolo qua” fece scorrendo con l’indice la lista dei nomi. “Ce starà?, ma dove va in giro co sto tempo!”. Pigiò il pulsante. “Chi è?”, rispose una voce bassa e roca. “Buonasera Sig. Botaro, sono ********”.
“Ah, salve la stavo aspettando. Salga su, scala B quarto piano, le apro il portone”.
“Ho le chiavi, grazie”.
“Non prenda l’ascensore”. Ciok. Riagganciò il citofono.
Attraversò l’androne. Qualcuno avevava cercato, senza riuscirci, di dare all’ingresso, un tocco di eleganza, incollando sulle pareti, paesaggi lacustri in bianco e nero. Sulla parete di destra c’erano le cassette della posta, suddivise per le due scale. Dpo le cassette postali, su una piccola parete sporgente nell’androne, c’era una tavola di compensato: la bacheca condominiale. Subito dopo, il primo appartamento. La targhetta sul campanello era priva di nome. “Dovrebbe essere questo” pensò Maurizio. Di fronte, nella parete opposta, un altro portone, l’interno uno della scala A. In alto, sulle pareti, gli insignificanti paesaggi in bianco e nero. In fondo all’androne, attraverso un altro portone in alluminio, uguale al primo, si accedeva al cortile dell’edificio. Sopra questa seconda porta un lumicino illuminava l’immagine di una madonnina. A destra e a sinistra del cortile, le scale circolari completamente finestrate, sembarvano due torri di vetro. Al centro un gruppo di alti ficus e vasi di grandi foglie sempreverdi. Scala A a sinistra, scala B a destra.
“Ha detto di non prendere l’ascensore, bah, in fondo sono solo tre piani”.
S’incamminò per la scale sgocciolando pioggia su ogni gradino. “non gli ho chiesto l’interno” pensò. “Che c’era scritto sul citofono) ah si, interno 12. Terzo piano, eccolo qua, interno 12, Botaro”. Din Don. Accompagnato un cigolio da brividi la porta si aprì. In giacca da camera rossa a rige dorate, stratta in vita da una cordo color oro dalle cui estremità penzolavano due pomelli, pantaloni neri gessati i piedi affondati in morbide pantofole verdi, il Signor Botaro si presentò a Maurizio, invitandolo, con un gesto della mano, ad entrare.
L’ingresso, quadrato, con un pesante armadio sulla parete destra e due insignificanti quadri su quella sinistra, apparve fiocamente illuminato dalla luce proveniente dalla stanza attigua. Seppur accanito fumatore, Maurizio arricciò il naso a causa del lieve ma sgradevole odore di chiuso che avvertì entrando in casa del signor Botaro.
Prego Signor *******, si accomodi” disse Botaro a Maurizio indicandogli il salotto dove, in un angolo, dietro la porta, c’era una scrivania.
M’ha telefonato il dottor Ziboi. Ha parlato molto bene di lei” disse Botaro a Maurizio.
“Sii, la ringrazio” lo interruppe subito Maurizio non potendo più sopportare di sentirlo parlare senza la dentiera.
“Sono venuto per il condominio, se non sbaglio sono quarantamila lire”.
“Certo, le preparo la ricevuta” rispose il signor Botaro.
Aprì un cassetto della scrivania e prese il libro delle ricevute. Ne compilò una, la strappò dal registro e la diede a Maurizio.
“Si paga il cinque di ogni mese, mi raccomando la puntualità” gli disse consegnandogli la ricevuta.
“Non si preoccupi signor Botaro” rispose Maurizio prendendo la ricevuta. “Vorrei andare a vedere l’appartamento prima che faccia notte, sicuramente la luce è stata staccata, sono già le quattro e fra poco sarà buio” disse Maurizio.
Diede una breve occhiata alla ricevuta, la piegò in due, la mise nel portafogli e si avviò verso l’uscita. Mentre gli stringeva la mano il signor Botaro gli ricordò di non prendere l’ascensore. “Sa, le tavole del pavimento non sopporterebbero il peso, bisogna sostituirle”.
“Ok, grazie signor Botaro, arrivederci”.
Mentre scendeva le scale cercò le chiavi dell’appartamento nelle tasche dell’impermeabile. Arrivò davanti al portoncino della sua nuova casa, proprio nell’androne del palazzo. Infilò la chiave nella serratura. Uno, due, tre giri al contrario e la porta s’aprì. La richiuse dietro di se appena entrato e restò per qualche istante appoggiato ad essa, al buio, nella sua prima casa. Si sentì un forte tuono, vicinissimo. Al piano superiore qualche bambino stava giocando conle palline. Ne sentì chiaramente una rotolare per qualche secondo sino a quando urtò contro una parete. Allungò automaticamente il braccio sinistro alla ricerca dell’interruttore, la luce si accese. “Menomale” pensò, “Non l’hanno staccata”. Una lampadina penzolante dal soffitto illuminò un corridoio di circa sei metri. Quattro porte sulla sinistra ed una sulla destra. Sulle pareti un’orrenda carta a disegni geometrici: file di rombi in diverse tonalità di rosso. Cominciò ad ispezionare la casa. Aprì la prima porta di sinistra: un piccolo ripostiglio di circa due metri quadrati con tanto di termosifone. La seconda porta era quella del bagno. Forse un metro e mezzo per tre. Una vasca senza il rivestimento in muratura, sorretta da quattro zampe di leone, un lavabo squadrato, il bidet ed il wc proprio sotto la finestra. “Che schifezza!” esclamò.

giovedì 13 dicembre 2007

PIENZA giugno 2007

Qui si puo vivere in pace

IL MIO TAVOLO


Ore 21,08
Che casino!

TODI giugno 2007
















MAMMA


Anzio 2006

Qui il treno non passa più

ASHKELON

Ore 18,13

Avevo cominciato, tanto tempo fa, a scrivere un libro. Anzi ne avevo iniziati 3: "La colonia", "Il campo di soia", "Ashkelon - la porta della giovinezza -"
Non ne ho finito nessuno.
Sono molto pigro, ultimamente non mi va di fare niente.
Mi piacerebbe molto terminare almeno il terzo, è una storia fantastica ambientata al tempo dei fenici.
Ho dovuto studiare un bel pò per conoscere la storia dei fenici, i loro usi, costumi, la loro religione e quant'altro.
Ho inventato, facendo attenzione a non dire troppe cazzate, personaggi, nomi, luoghi e vicende, riti e vestiti, effetti speciali. Ho disegnato, per poter meglio muovere i protagonisti, locande, templi, porti, navi, suppellettili ed oggetti di uso comune come bicchieri, monili, ed arnesi per la cura della persona.
La storia inizia a Roma negli anni '80. Si trascina per circa 20 anni di resoconti più che di racconti fino ad arrivare al nuovo millennio. Il protagonista, "Flavio" (esiste veramente), dopo una notte di birra non trova niente di meglio da fare che andarsi a refrigerare nella mia vasca da bagno.
Primo effetto speciale: la vasca da bagno, si trasforma in mare in tempesta.
Una nave fenicia, al comando di Trebor, lotta contro i marosi per raggiungere Tiro.


Gigi Filippo Von Opel Graff

Nel 2006 ero così, ora sono così e così ero anche 6 anni fa.
Sono sempre stato così.

IMPRIMATUR

13 dicembre 2007
E' nato il mio blog: IAIO1953.

Sarebbe doveroso raccontarvi qualcosa di me, ma ora ho da fare, non mi va e non so da dove cominciare quindi, appena avrò deciso cosa dire, forse scriverò qualcosa.
Tanto non ve ne frega niente.