sabato 15 dicembre 2007

NIZZA











ASHKELON LIBRO 1° CAP. 1°




LIBRO 1°
LA PORTA DELLA GIOVINEZZA

CAPITOLO 1°
TIRO 1250 A.C.

La casa di Maurizio, per Flavio, era un rifugio. Quando le cose gli andavano storte, e gli andavano sempre storte, prendeva la macchina e si nascondeva lì, l’unico posto dove poteva fare quel che voleva senza che nessuno gli dicesse nulla e, soprattutto, dove nessuno sarebbe andato a cercarlo. Quel venerdì sera era una di quelle giornate no.
Uscito dal lavoro se ne andò dagli amici, al bar. Entrò con la sua aria da capo, salutato calorosamente da tutti. Dopo circa due ore di birra, verso le 20,00, uscì barcollando, senza che nessuno lo degnasse di uno sguardo. Il nero del suo abito, contrariamente al solito, non ne esaltava l’aspetto minaccioso ma ne accentuava la momentanea vulnerabilità. Entrò nella sua vecchia Opel e miracolosamente raggiunse la casa di Maurizio. Suonò il citofono con tale violenza che sarebbero bastati altri pochi squilli e la pulsantiera gli sarebbe esplosa sotto le dita. Dopo aver atteso qualche istante si convinse che Maurizio non era in casa. Tornò alla macchina e prese le sue chiavi. In ascensore salutò la sua immagine riflessa nello specchio e non soddisfatto di quello che vide, sferrò un pugno al pulsante del quarto piano. Dolorante strinse la mano fra le ginocchia imprecando violentemente. Entrò in casa. Si sedette sul divano. Era troppo nervoso, decise di rialzarsi e nel farlo urtò un tavolo facendo cadere una lampada di vetro. Dalla base, frantumata in mille pezzi, uscì una miriade di fiori secchi colorati. “Scusa” disse alla lampada. Percorse il lungo corridoio al buio, e, senza provocare altri danni entrò in bagno. Aprì il rubinetto dell’acqua calda della vasca, stette a guardarla mentre, lentamente, si riempiva. Versò il bagno schiuma. Improvvisamente sentì il bisogno di bere. Ripercorse il corridoio a tentoni, fino all’ingresso, e si diresse verso la libreria dove sapeva di trovare da bere. Dopo una breve occhiata alle bottiglie fece la sua scelta: “ sciampagne vu vu & pelletier et fils” lesse, così com’era scritta, l’etichetta sulla bottiglia. Seguì la ricerca del bicchiere. Nonostante i postumi dell’alcool si rese subito conto che quelli esposti nella libreria non erano adatti. Volgendo lo sguardo intorno vide, sul mobile di fronte, luccicare le Porte di Cristallo. I sei bicchieri, colpiti dalla luce, riflettevano intorno giochi di colore. Si avvicinò ad essi esitante e, ignorando il divieto di Maurizio, ne prese uno. Lo sollevò verso la luce fermandosi a rimirarne la perfetta trasparenza. Ne apprezzò brevemente la purezza della forma. Soddisfatto, riprese la bottiglia, spense la luce e tornò in bagno.
Il vapore aveva invaso l’ambiente appannando gli specchi. Posò bottiglia e bicchiere vicino la statua di Venere che Maurizio teneva sul largo bordo della vasca. Immerse la mano nell’acqua per sentirne la temperatura. “Troppo calda” disse agitando la mano nell’aria. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda, il getto formò un profondo buco nella schiuma che intanto cominciava a traboccare. Nell’attesa che l’acqua raggiungesse la giusta temperatura andò a spogliarsi. Si sedette sul letto per togliersi gli stivali gettando alla rinfusa i vestiti intorno. Tornò, nudo, in bagno. Chiuse il rubinetto, prese la bottiglia di champagne e ne strappò dal collo la carta dorata. Poi, come in attesa dello scoccare della mezzanotte, cominciò a stapparla lentamente. Nel sentire il botto sorrise soddisfatto. Facendo scorrere la bottiglia lungo la vasca versò molto champagne nell’acqua gridando “champaaagne”. Il vino versato disegnò ghirigori nella schiuma. In precario equilibrio entrò nella vasca e la schiuma, piano piano, accarezzandogli la pelle, cominciò a salire fino al mento costringendolo a piegare la testa all’indietro per non soffocare. Prese il bicchiere ai piedi della Venere e tenendolo alzato con la mano sinistra inclinò la bottiglia provocando un’onda che urtando violentemente contro il collo si ruppe in un’infinità di pesanti goccioloni. Flavio, con gli occhi sbarrati, vide, come al rallentatore, la prima goccia di champagne cadere nel fondo della coppa. Al contatto con il cristallo decine di piccole gocce fuoriuscirono dal bicchiere esplodendo in tutte le direzioni riflettendosi nelle sue pupille. Come fuochi d’artificio, ormai già lontane dalla coppa, formarono cascate di lapilli colorati. Flavio, esterrefatto e credendo di sognare, vide l’acqua ribollire intorno a se. Lo spettacolo si ripeté ad ogni contatto delle gocce di champagne con il vetro della coppa. Sconcertato raddrizzò la bottiglia e bevve un lungo sorso dal bicchiere. Rilassato, poggiò la testa sui piedi della Venere e chiuse gli occhi. Passarono pochi secondi e li riaprì di colpo lasciando cadere la bottiglia ed il bicchiere che scomparsero rapidamente nella schiuma. Cercò di sedersi ma era come paralizzato. Improvvisamente si trovò a lottare contro furiose onde. Non era più nella vasca. Era invece circondato da un’immensa distesa blu. Le onde, violente, lo sommergevano per poi lasciarlo riaffiorare. Non riusciva a respirare. Cercava di sputare l’acqua che in continuazione gli riempiva la bocca. “Ma è salata!” esclamò meravigliato. Esausto smise di lottare e abbandonò la testa all’indietro. Un istante prima di perdere i sensi, vide, in lontananza, una grande imbarcazione che lottava disperatamente contro la tempesta. Due marinai, sbracciandosi dalla poppa, indicavano ad un terzo, il corpo di Flavio ormai privo di sensi. L’uomo senza esitare si tuffò tra le onde e con veloci bracciate lo raggiunse quando ormai, avvitandosi leggermente, cominciava ad annegare.
L’uomo gli stava comprimendo il torace quando, fra rigurgiti d’acqua salata Flavio riaprì gli occhi.
“Capitano” disse l’uomo, “Un’enorme ondata ha inclinato la nave ed è caduto, stava per annegare”.
“Meir!” esclamò Flavio, “Ti sei già pentito d’avermi salvato? Vuoi uccidermi tu, mi stai schiacciando le costole”. Gli uomini attorno scoppiarono in una fragorosa risata.
La tempesta si era placata. Flavio si alzò e guardandosi intorno come per constatare le condizioni del battello, riconobbe tutti i suoi uomini.
Meir, il nocchiero, si ergeva imponente davanti a lui nonostante la brutta avventura.
Keftet, un ragazzo di appena diciotto anni, al suo primo imbarco, “Mozzo, non era forse tuo compito tenere in ordine la nave?” gli disse indicando il ponte devastato. Keftet arrossì timidamente tra le risate dell’equipaggio e Meir cingendogli le spalle lo strinse a se confortandolo, “E’ un vero marinaio, è grazie a lui che siamo riusciti a salvare il carico”.
“E’ vero Capitano” ribatté Memsi, un ragazzo proveniente dai cantieri navali di Tiro. “Prima che la tempesta s’impadronisse della nave è riuscito a stringere tutte le cime intorno alle casse impedendogli di urtare contro il fasciame della stiva”.
Flavio si avvicinò a Keftet, gli poggiò le mani sulle spalle “Bravo ragazzo, ho sempre avuto fiducia in te, tuo padre ne sarà fiero”. “Senza l’aiuto del Signore delle tempeste ci troveremmo tutti in fondo al mare” disse Keftet. Il capitano lo guardò meravigliato di tanta devozione verso Melqart, principale divinità di Tiro. “Ma ora bisogna darsi da fare, guardate che disastro”, aggiunse Flavio indicando loro il ponte, “ A lavoro fannulloni”.
La nave, proveniente da Sulcis, in Sardegna, trasportava un carico d’argento e rame destinato alle botteghe artigiane di Tiro e Sidone. Aveva già navigato per tutto il Mediterraneo quando, a sud di Cipro, fu colta dalla tempesta.
Il breve tratto di mare che separava Cipro dal porto di Tiro fu attraversato tranquillamente senza altri incidenti.
“Con il vento favorevole saremo in vista del porto in cinque giorni” disse Meir.
Flavio, volto in direzione di Nablus, un tarchiato ragazzotto di Tharros ricca colonia fenicia sulla costa occidentale della Sardegna, gli ordinò di salire sulla coffa, “Così sembrerai più alto” aggiunse facendo l’occhietto a Meir. Appena Nablus si fu arrampicato sull’albero, Keftet aiutò Aren e Hamered, due inseparabili fratelli della cittadella di Zer, ad issare il pennone.
La gran vela rettangolare fu immediatamente gonfiata dal vento, imprimendo alla nave una spinta che in breve le fece raggiungere una velocità di tre nodi.
Mentre gli uomini riordinavano il ponte liberandolo dai vari oggetti sparsi dalla tempesta, Flavio scese nella stiva, passò dinanzi alle casse cariche d’argento e di rame, in fondo, verso poppa, prima della zona riservata ai marinai, notò, amareggiato, che nessuna delle anfore si era salvata. Camminò a piedi nudi tra i cocci prestando attenzione a non tagliarsi e raggiunse il suo giaciglio, povere tavole coperte da grandi teli di canapa che, completamente fradici, erano scivolati per terra. Si chinò sotto il letto e tirò fuori una cassa nella quale erano riposte le poche cose necessarie alle cure personali. Ignorò un rasoio di bronzo ed alcuni frammenti di specchio e prese un abito pulito, l’unico che c’era, in canapa rossa. Si tolse di dosso i pochi brandelli rimasti e si cambiò. Prima di riporre la cassa prese il rasoio di bronzo e lo mise sotto la cinghia che gli stringeva la corta tunica. Tornato sul ponte fu accolto dai fischi di ammirazione dell’equipaggio. “Fareste bene a darvi una ripulita anche voi, sembrate degli straccioni” cantilenò come risposta. Raggiunse Meir nel suo casotto. “Olio e provviste sono andati” disse, sedendosi sulle tavole dove il nocchiero si stendeva a riposare, “Le anfore sono tutte rotte”. Meir alzando le spalle gli rispose che l’argento ed il rame avrebbero assicurato, da soli, un lauto guadagno. “La nave è salva ed è in grado di affrontare ancora decine di viaggi” aggiunse vedendo che Flavio, pensieroso, si reggeva il volto.
Era buio quando gli uomini risistemato il ponte e provati dalla fatica scesero sottocoperta a riposarsi.
Meir ancora pieno di forze, come se si fosse appena svegliato, rimase solo con il grande remo stretto nella mano destra, a governare la nave.
Flavio, dalla prua, se ne stava a guardare le stelle.
Col calare della notte la vela, ormai sgonfia, non spingeva più la nave che, lentamente, seguiva il flusso della corrente.
L’alba colse Flavio disteso tra le cime dell’ancora. Meir cominciava ad avvertire la stanchezza. Arrivò Rabben, un ragazzone di ventitré anni, di genitori egiziani ma residente a Tiro, a dargli il cambio. Meir raggiunse Flavio, allungò il braccio per svegliarlo ma il capitano, senza voltarsi disse: “Sono sveglio Meir”.
Il nocchiero rimase un istante a guardarlo pensando che Flavio fosse preoccupato per la perdita delle anfore, cercò di tirargli su il morale ricordandogli che con la vendita delle sole casse d’argento avrebbero guadagnato almeno seimila monete di Tiro, sufficienti a pagare l’equipaggio e a riarmare la nave per il viaggio successivo. Flavio non replicò.
Meir in realtà conosceva il motivo del silenzio del suo capitano, Aseret, una splendida fanciulla appartenente alla classe alta di Sulcis.
Gabir, il padre di Aseret, un anziano colono arricchitosi commerciando con Cartagine, aveva proibito alla figlia di vedere Flavio. La ragazza era già stata promessa ad un nobile di Cartagine.
Il nocchiero stava per andarsene, poi girandosi nuovamente verso Flavio, cominciò a descrivere le bellezze femminili di Tiro. “Vattene via” gli urlò Flavio tirandogli dietro un coccio trovato tra le corde.
“Aseret, Aseret, solo Aseret, non esiste altra donna al mondo” bofonchiò Meir lasciandolo solo con i suoi pensieri.
Durante gli ultimi giorni di navigazione gli uomini furono impegnati nelle loro usuali attività. La vita a bordo trascorse serenamente fra pulizie, svaghi, pesca e, nei giorni più caldi, con qualche tuffo in mare.
Fu di pomeriggio, mentre la maggior parte degli uomini stava riposando sotto coperta che Nablus urlò, con tutto il fiato che aveva in gola, “Terra in vistaaaa”.
Meir, mezzo addormentato sulla panchetta, si alzò e immergendo in mare il remo fece virare bruscamente la nave. “Pezzo d’idiota” gridò Nablus dalla stretta coffa avvicinando la mano destra alla bocca. Tre marinai rotolarono giù dal letto a causa dell’improvviso strattone. Flavio si svegliò battendo la testa contro lo scafo. “Ora vado su e lo do in pasto ai pesci, nocchiero della malora” gridò toccandosi la testa dolorante. Salirono tutti di corsa sul ponte.
“Terra in vista Capitano” urlò Nablus. “C’è Tiro da quella parte” continuò a strillare, indicando a sinistra della nave.
“Vuoi portarci in Egitto?” chiese Flavio a Meir, “Ti spezzo quel dannato remo in testa, non vedi il porto laggiù?”
“Eeh quante storie, mi ero appisolato un attimo” rispose Meir cambiando rotta e dirigendo la nave verso la costa.
Gli isolotti sui quali sorgeva Tiro erano ormai vicini. Tutti avevano fretta di toccare terra. Aren e Hamered manovrarono le funi per tirare giù la vela proprio nel momento in cui Nablus scendeva dalla coffa. A metà dell’albero centrò in pieno il pennone che rovinò pericolosamente sulle teste dei due fratelli. Keftet scese di corsa nella stiva per cambiarsi e nel buio inciampò sul corpo di Rabben che s’era chinato per prendere, sotto il letto, un vestito pulito. In brevissimo tempo crearono più confusione loro di quanta ne avesse causata la tempesta. Quando la nave imboccò il porto, erano tutti allineati sul ponte, puliti e splendenti nelle loro vesti. Giunti all’attracco gettarono l’ancora. Meir tirò una cima a terra e un ragazzo la legò ad una bitta. Erano pronti a sbarcare. Memsi stese la passerella e tutti scesero finalmente. Per ultimi sbarcarono Flavio e Meir.
Il mozzo Keftet, Memsi, il nano Nablus, i fratelli Aren e Hamered e Rabben restarono sulla banchina tra la folla ad attenderli.
Raggiunto l’equipaggio Flavio, impartì agli uomini gli ultimi ordini del giorno. “Fra un’ora sarà notte quindi, ragazzi, siete liberi. Qualcuno però dovrà restare di guardia sulla nave” continuò trasformando l’allegria dei marinai in mugugni di delusione. “Tu sei nuovo qui in città, non conosci nessuno, non sapresti dove andare a dormire e sicuramente ti cacceresti nei guai, quindi la cosa migliore per te è restare di guardia” disse rivolto al piccolo Nablus. Incuranti della delusione del loro amico, gli altri ragazzi ripresero a festeggiare il ritorno a casa. “Però” continuò, “Qualcuno dovrà controllare, ogni due ore, che tutto sia tranquillo. Quindi, tu Rabben tornerai a bordo alla seconda ora da adesso e così fino all’alba, ogni due ore, farete voi. Questi sono i miei comandi. Non vorrete che per una notte di bagordi qualcuno ci porti via cinque mesi di duro lavoro! Forza, a casa adesso, ci rivedremo domani alla sesta ora”. Ognuno si dileguò fra la folla. I due fratelli, inseparabili, si diressero verso nord. Flavio e Meir guardarono Nablus risalire sulla nave. “Tira su la passerella” lo esortò Meir, “Sarà più difficile per i malintenzionati salire a bordo”. Nablus senza voltarsi alzò il braccio destro in segno di saluto.
“Hai deciso bene” disse Meir rivolto a Flavio, “Tiro non è sicura per lui”. I due si salutarono, “A domani nocchiero, riposa bene”.
Le strade di Tiro si andavano svuotando. I pochi mercanti rimasti riponevano sui carri le merci invendute. Alcuni contadini s’apprestavano ad uscire dalla città con il loro carico di polli, ceste d’uova ed ortaggi vari.
Flavio, oltrepassata la zona portuale, s’incamminò lungo una stretta via che conduceva alla parte settentrionale della città e da lì a Paletiro, il quartiere di Tiro costruito sulla terraferma. La strada, maleodorante, era immersa nel buio, fiancheggiata com’era da alti edifici di legno accostati l’uno all’altro. Passò davanti ad una taverna dalla quale provenivano schiamazzi. Fece per entrare ma, scorgendo in un angolo i due fratelli di Zer che confabulavano con un vecchio dai vestiti eleganti, decise di andarsene. Prima di uscire si voltò ancora verso il tavolo di Aren e Hamered e li vide prendere, dalle mani del vecchio, una borza di pelle rigonfia. Il più giovane, Aren, lo vide, diede una gomitata al fratello indicandogli l’uscita del locale. Hamered si voltò appena in tempo per riconoscere Flavio che usciva dalla bettola.
“Era lui” dissero entrambi al vecchio.
Flavio non lo riconobbe. Ma di sicuro pensò, non viveva a Tiro. S’icamminò verso Paletiro. Arrivò alla piazza del tempio di Melqart, Baal di Tiro e Signore delle tempeste. Era buia e sporca. Su di essa troneggiavano i grossi blocchi di pietra del muro di cinta che separava l’area sacra del santuario, fatto erigere da Hiram re di Tiro, da quella profana. Oltre le mura si ergevano, preziose, due grandi colonne d’oro e smeraldo. Flavio giunse sotto le mura ed imboccò una viuzza che conduceva alla parte nord della città, da dove, attraversando il canale, le zattere traghettavano a Paletiro.
“Chi va la?” gridò portando la mano sulla cinghia dove aveva riposto il rasoio di bronzo. Non fece in tempo a dire altro. Un uomo avvolto in un mantello, sbucò da un portone e lo colpì in testa. Quando riprese i sensi si trovò i polsi e le caviglie legate da robuste corde che lo tenevano saldamente ancorato ad una gelida lastra di pietra. Ai suoi piedi, l’uomo che lo aveva colpito. Alla sua sinistra Aren e Hamered osservavano l’uomo colmantello.
“Bastardi, che Melqart vi fulmini” imprecò Flavio riconoscendoli nella fioca luce delle torce appese alle pareti.
“Melqart non ti sarà di nessun aiuto” esordì l’uomo togliendosi il mantello.
“Hamed ! , è quell’avaro ipocrita di sulcitano che ti manda, cosa vuoi da me” chiese Flavio al vecchio avendo riconosciuto in lui il perfido servo egiziano di Gabir, padre di Aseret.
Hamed senza rispondere si avvicinò alla pietra. Aprì una piccola cassa ai piedi del capitano e vi infilò le mani e rialzandole, lentamente, ne estrasse una coppa di cristallo.
“Cosa vuoi, offrirmi da bere?” disse ironico Flavio.
Hamed sollevò la coppa che colpita dai raggi luminosi del fuoco delle torce, riflesse, per tutta la stanza, una luce rossastra.
“Ridi, ridi pure Capitano, saranno le tue ultime risa sotto il regno di Hiram. A Tiro gli Dei hanno svelato all’uomo il segreto del vetro. La Terra gli ha fornito il silicio, il Fuoco lo ha reso liquido e l’Aria, gonfiandolo, gli ha dato la forma. A Sulcis il maestro dei sacrifici ha immolato una fanciulla a Moloch e il gran sacerdote ha resuscitatoil dio in cambio dei suoi poteri. Questa” continuò Hamed “è la Porta della Giovinezza. Una giovinezza antica, quella degli albori del mondo. Quando avrai bevuto da questa coppa gli spiriti buoni della Terra, dei Boschi e dei Fiumi che convivono nel vetro, resi malvagi dai poteri di Moloch, ti condurranno in un mondo primitivo, lontano dalla civile Fenicia. Si compirà così il destino di Aseret, che già viaggia verso Cartagine dove andrà sposa al nobile Trebor ed il tuo, che dimentico di quanto hai vissuto, ti troverai a combattere, per sopravvivere, contro una natura selvaggia ed ostile. Ma soprattutto si compirà il mio destino. Grazie al compenso che Gabir mi darà, sarò finalmente libero dalla schiavitù. Solo bevendo una seconda volta da questa coppa potrai tornare indietro, ma non avrai questa possibilità”.
“Maledetto tu e il tuo padrone” ribatté Flavio contorcendosi sull’altare.
Allungando la mano con la coppa in direzione di Aren “Versa il vino” disse Hamed, “Dissetiamo il vostro comandante con il nettare dell’oblio e che gli spiriti malvagi se lo portino via per sempre”.
Avvicinò poi il boccale alle labbra di Flavio ordinando “Guadagnatevi i vostri denari,tenetelo fermo”.
“Sporchi traditori, non avvicinatevi” disse Flavio agitando la testa. Aren e Hamered gli strinsero un pezzo di legno tra i denti per costringerlo a tenere la bocca aperta. Il vino friggeva nella coppa emanando tutto intorno magiche esplosioni colorate. I due, meravigliati, si fecero da parte mentre il servo di Gabir inclinava il bicchiere per versargli il liquido in bocca.
Quando la prima goccia di vino stava per uscire qualcuno spinse il pesante portone alle spalle di Hamed, piombò violentemente contro lo schiavo egiziano che, vacillando, lasciò cadere la coppa. Questa senza rompersi cadde sul mantello. Colpito alle spalle Hamed finì contro il corpo di Flavio che non potendo fare altro, gli sferrò una potente testata sul naso. Hamed sollevò il capo sanguinante e poggiando le mani sul corpo del capitano, sentì, con la destra, il rasoio che questi teneva tra la cintola. Prontamente glielo tolse e giratosi contro l’intruso tirò un fendente all’altezza della vita. Questi gli bloccò il polso prima che la lama lo colpisse e, torcendolo, costrinse Hamed a lasciar cadere il rasoio. L’egiziano, cadde ai piedi del nuovo arrivato che lo colpì violentemente con una ginocchiata. Dalla sua posizione Flavio non riuscì a vedere il volto del suo salvatore. Aren ed Hamered, dall’altra parte della stanza, però, lo avevano riconosciuto. “Meir” dissero meravigliati all’unisono, “Che Moloch ti maledica”, tirandogli contro una delle torce appese alle pareti. Meir tenendo bloccato Hamed, con la sinistra afferrò la torcia al volo. “Meir amico mio, arrivi al momento giusto” disse Flavio mentre cercava di spezzare le funi tirandole con le braccia. “Avevo visto questi due bastardi parlare con l’egiziano e, incuriosito, li ho seguiti” rispose Meir. Avvicinando pericolosamente la torcia accesa al volto di Hamed si rivolse ai due fratelli. “Scioglietelo o ridurrò il vostro amico in cenere”. I due esitarono. “Fate come vi dice, idioti!”, urlò Hamed. Il capitano libero ed in piedi, improvvisamente, senza che i due se l’aspettassero, li prese per le orecchie e gli fece sbattere la testa l’uno contro l’altro. Hamed approfittando della confusione era riuscito a raccogliere il rasoio e lo conficcò violentemente nella coscia sinistra di Meir. La torcia cadde sul mantello di Hamed incendiandolo. Con un urlo disumano si strappò la lama dalle carni. Un fiotto di sangue spruzzò in faccia a Hamed che, velocemente, fuggì attraverso la porta divelta. Flavio fece il giro dell’altare ed andò verso Meir. “Amico mio, che il Signore delle Tempeste ti protegga” gli disse abbracciandolo. Poi notando la smorfia di dolore sul suo volto abbassò gli occhi verso la coscia ferita. Prese una delle corde e gliela strinse intorno alla coscia.
“Dobbiamo inseguirlo” disse Meir a Flavio, “Libero potrebbe ancora nuocere, riesci a camminare?”. “Si, fa male ma è sopportabile, andiamo” rispose Meir. Imboccarono la via presa da Hamed.
“Dove siamo?” chiese Flavio. “Nel sotterraneo del Tempio di Melqart. Questo corridoio conduce al gran bacino artificiale”.
“La coppa !” esclamò Flavio, “Aspettami qui” e tornò indietro.
“La coppa? Che coppa?” gli chiese Meir.
Nel sotterraneo il mantello di Hamed stava ancora bruciando. Flavio soffocò con i piedi gli ultimi fuochi, prese ciò che rimaneva del mantello e vi avvolse la coppa, staccò una torcia dal muro e raggiunse Meir.
“Cos’hai lì?” chiese Meir. “Un bicchiere” gli rispose il capitano.
Meir tacque.
Il corridoio saliva costeggiando le mura della sala. Arrivarono fino all’angolo nord-ovest e si fermarono. Flavio fece cenno a Meir di accostarsi alla parete. Sporse la testa oltre l’angolo poi si girò verso l’amico “Via libera”.
Percorsero ancora qualche metro. Alla luce della torcia scorsero, poco più avanti, una scala incastrata nei grossi blocchi di pietra delle fondazmenta. Con cautela cominciarono a salire. Dopo circa quindici gradini arrivarono ad un piccolo pianerottolo dal quale si diramavano tre corridoi e più stretti di quello lasciato alle spalle. Meir era stanco. Dalla ferita alla coscia sgorgava ancora sangue. Flavio illuminò il corridoio di sinistra. Alla luce della debole fiamma apparve uno stretto e umido cunicolo le cui pareti erano scavate da nicchie con piccole steli di pietra. Passò al corridoio successivo che scendeva al di sotto del livello in cui si trovavano. A malapena lo si poteva attraversare. Dalle pareti colavano acqua e fango. Un olezzo dolciastro lo prese alla gola. Avanzò lentamente. Il corridoio si aprì in una grande sala quadrata. S’accorse, poco prima di finirci dentro, che l’intera stanza era una profonda fossa. Sporse la torcia e illuminando uno spettacolo orrendo. In fondo alla buca, grossi roditori s’accanivano contro un ammasso di cadaveri. S’inginocchiò sul bordo ed abbassò la fiaccola. I topi stavano divorando i resti ormai putrefatti di decine di bambini. Fu colto da un conato che non riuscì a trattenere. Si gettò all’indietro. Restò per qualche attimo in quella posizione finché, preso dall’orrore, ripercorse, correndo, il corridoio per raggiungere Meir. S’appoggiò al muro accanto a lui. Ansimando guardò in faccia l’amico e gli disse “E’ questo il tributo che paghiamo al Signore della città?”. “Baal chiede il sacrificio estremo per i suoi servigi” gli rispose Meir, “I figli più giovani di Tiro nati deformi o malati, finiscono, dopo l’immolazione, in pasto ai topi affinché le loro madri partoriscano figli sani. Quelli che hai appena visto sono i figli dei più poveri. Dietro le steli del primo corridoio riposano, dentro le urne, i resti inceneriti dei fanciulli della classe più ricca. Questo è ciò che chiede Baal”. “Questo è ciò che chiedono i suoi crudeli sacerdoti” replicò Flavio con disprezzo.
Restarono qualche minuto appoggiati al muro, senza parlare. Poi Flavio illuminò il terzo corridoio. Da li iniziava un’altra rampa di scala.
“Sembra che tu conosca molto bene questo posto, dove porta quella scala?” domandò Flavio a Meir. “Al Tempio, nel portico intorno al laghetto, al centro del Santuario”.
“Andiamo, dobbiamo uscire” continuò Flavio sostenendo con un braccio il nocchiero.
Faticarono un bel po’ prima di arrivare alla curva che la scala faceva intorno alle mura. Meir, appoggiato a Flavio, era visibilmente provato. La ferita alla coscia continuava a sanguinare. Giunti alla curva riposarono e Flavio strinse di più la corda sulla ferita. “Lasciami qui, non riuscirai mai ad uscire dal Tempio se dovrai sopportare anche il mio peso” gli disse Meir. “Tu sei venuto quaggiù e mi hai liberato, io non ti lascerò crepare qui sotto” rispose Flavio mentre lo aiutava a rialzarsi. “E poi ho ancora bisogno di te, chi governerà la nave fino a Cartagine?. Rabben è un bravo nocchiero, ma non conosce ancora bene le rotte verso occidente, sarà difficile per lui portarmi a Cartagine”. “Cartagine? cosa c’entra adesso Cartagine?” chiese Meir. “Poi ti spiegherò, usciamo da questo posto maledetto e poi ti spiegherò tutto” gli rispose il capitano mentre, barcollando, si trascinava Meir in cima alla scala."Troppe cose dovrai spiegarmi. Cosa ci facevi legato su quell’altare? E perché Aren e Hamered, insieme al quel vecchio intrigante di Hamed ce l’avevano con te? Cosa ci fai con quel bicchiere di vetro che hai li dentro?” domandò Meir. “Pazienza amico mio, domani saprai tutto”.
Arrivarono finalmente alla fine della scala. Si trovarono nell’area sacra del tempio. Una vasta vasca rettangolare, scavata nella roccia, al centro della quale, sopra un isolotto, sorgeva una piccola cappella sormontata da un fascione merlato. Un portico cingeva, per tre lati, la vasca. Dal quarto sgorgava, direttamente dalla roccia, una sorgente che alimentava d’acqua il grande bacino artificiale. Il luogo era immerso in un profondo silenzio rotto soltanto dallo sgorgare dell’acqua. Dall’alto della vasca, priva di tetto, la luna, rispecchiandosi nell’acqua, illuminava debolmente l’area sacra.
“Ecco da dove proviene l’acqua che cola sulle pareti nella stanza di sotto. Bel santuario ha costruito Hiram per i suoi orrendi riti” disse Flavio indicando il laghetto. “Dove sta l’uscita?”.
“Da quella parte” rispose Meir allungando un braccio verso il fondo del portico.
Camminarono lentamente sotto uno stupendo soffitto a cassettoni. Massicci pilastri di pietra, allineati lungo il bordo della vasca, sorreggevano i pesanti marmi scolpiti del soffitto che, nell’altro lato, poggiavano sulla roccia nella quale era stata scavata quella parte del tempio in cui si trovavano. Arrivarono all’altezza del secondo pilastro ed udirono, provenire da un’apertura nella roccia, alla loro sinistra, una strana litania. Flavio, incuriosito, volle andare a vedere. Lasciò il suo amico ad attenderlo sotto il portico e s’avviò verso gli strani lamenti. Percorso un breve corridoio, anch’esso scavato nella roccia, si trovò dietro una grande stele, in un’altra sala del santuario. Prestando attenzione a non farsi scorgere, fece capolino da oltre la stele. Quello che vide confermò i suoi pensieri sui riti e sui sacerdoti che li praticavano.
Un uomo mingherlino, vestito di un gonnellino egiziano, riccamente decorato, col torso nudo e con preziosi monili d’oro che gli scendevano dal collo lungo il petto, recava, sulle braccia, un neonato. L’uomo, sacerdote di Melqart, giunto nei pressi di un altare, porse il bambino ad un altro: il Gran Sacerdote. Questi indossava una lunga tunica di canapa rossa che gli ricopriva tutto il corpo fino alle caviglie. Sul capo una tiara conica intessuta con fili d’oro e d’argento. Come l’altro indossava monili d’oro e pietre preziose. Alla sua destra un altro sacerdote.
Prese il bambino e lo depose sul piano di legno dell’altare al centro della stanza. Oltre l’altare, un ragazzo ed una giovane donna, i genitori del bambino. Dietro di loro alcune donne che, con le mani sul volto, intonavano incomprensibili litanie.
La mamma del bambino si fece avanti. Dalla veste che indossava, una vecchia tunica che originariamente doveva essere rossa, ormai sbiadita e logora in più parti, priva d’alcun monile, e a piedi scalzi, Flavio intuì appartenere alla classe più povera di Tiro. Recava in mano una statuetta votiva in bronzo. Si avvicinò al Gran Sacerdote che, preso il bronzetto, lo consegnò all’aiutante che era rimasto al suo fianco. Tornata al suo posto la donna poggiò la mano destra sul braccio del suo uomo, un ragazzo poco più che ventenne. L’uomo la guardò. Annuì con il mento e si fece avanti. A torso nudo mostrava tutta la fierezza del suo giovane corpo. Indossava un semplice gonnellino che gli ricopriva le gambe sino alle ginocchia. In mano teneva una borsa di pelle. Raggiunto il Gran Sacerdote gliela consegnò. Questi la soppesò con entrambe le mani, poi, soddisfatto, la consegnò al sacerdote alla sua destra. Quando il ragazzo raggiunse la sua donna il Gran Sacerdote si avvicinò all’altare, prese un rasoio di bronzo e sollevatolo in aria con tutte e due le mani predicò: ”Melqart, Baal di Tiro e delle tempeste, noi ti invochiamo affinché tu interceda presso Astarte, dea della fecondità, madre e regina. Questi giovani tirii ti fanno dono del corpo malato del loro figlio primogenito. Fa sì che la sua anima rinasca in un corpo sano e robusto”. Finita la breve supplica, senza ulteriori cerimonie, abbassò il rasoio. Lo avvicinò al bambino che si agitava sull’altare e con un colpo secco e deciso gli recise il collo. Dal profondo taglio il sangue schizzò sulla veste del Gran Sacerdote che, senza scomporsi, azionò, col piede destro, una leva alla base dell’altare. Il piano di legno si abbassò ed il corpo senza vita del neonato precipitò nella stanza sottostante dove, poco prima, Flavio aveva visto i topi cibarsi dei miseri resti di bambini.
“Andiamo via da questo luogo orrendo” disse Flavio appena raggiunto il suo amico. Prese la torcia ancora accesa, lasciata ai piedi di Meir, “Questa non serve più” disse lanciandola nell’acqua. Poi raccolse la coppa avvolta nel mantello di Hamed , aiutò Meir a rialzarsi e s’incamminarono verso il fondo del porticato. Percorsero tutto il suo lato sinistro fino ad arrivare alla parete opposta alla sorgente, dove, davanti ad un gran portone di bronzo, ardevano due bracieri. Una lunga asse di legno teneva ben chiuse le due ante del portone bronzeo. Flavio sollevò l’asse ed il portone s’aprì. Davanti a loro, ai piedi di una breve scalinata, troneggiavano le due prezione colonne d’oro e smeraldo. “Guarda” disse Flavio a Meir, “Macchie di sangue” gli fece indicando i gradini. “Quel vecchio bastardo è passato di qui, gli sanguinava il naso quando è fuggito”.
“Sarà uscito dal piccolo passaggio tra le mura laterali” rispose Meir, “Qui sulla sinistra”.
Scesero la gradinata, passarono tra le due colonne e, raggiunta una porticina nel lato sinistro del muro di cinta, si trovarono nella stradina dove Flavio era stato aggredito.
“Finalmente fuori” esclamò sorridendo Flavio. “Alle zattere adesso, ti porto a casa mia”.
Giunti a Paletiro, Flavio condusse Meir a casa sua dove, dopo averlo fatto stendere su di un letto, gli spalmò una pomata bianca sulla coscia. “Questo unguento è ricavato da erbe prodigiose” gli disse mentre medicava la ferita. “Domani non sentirai più nessun dolore”.